“Perché l’amore? Perché la specie è perseguitata dalla questione dell’amore?
Amore sì, amore no, capacità di amare, amore negato, amore infelice, amore soddisfatto,
possiamo collegarlo innanzitutto all’inadeguatezza della consistenza del corpo stesso.
Ma l’amore è anche un modo – nella prospettiva del sinthomo –
di dare senso a un godimento che è sempre parassitario”.
J.-A. Miller, Pezzi staccati, 24 novembre 2004
Il capitalismo non si occupa, diceva Lacan, dell’amore e delle cose amorose… eppure, ancora oggi, in un mondo in cui le logiche del capitalismo, gli sviluppi della scienza e i suoi prodotti tecnologici hanno invaso ogni spazio, ci si innamora di un altro, di un’altra, di altri, in modalità forse diverse rispetto al passato. E il lettino dell’analista è il luogo in cui, talvolta, si parla dell’amore e delle sue difficoltà. Spesso, infatti, è la perdita di un amore, la rottura di una relazione, il lutto impossibile o meno ciò che spinge a chiedere, nell’urgenza, di incontrare un analista, oppure l’impossibilità a lasciare, a rompere, cioè a perdere qualcosa di quella relazione. In altri casi, invece, si crede di chiedere un aiuto per ristabilire una relazione mentre, di fatto, il desiderio inconscio va in tutt’altra direzione….
Se l’amore, l’Eros, è ciò che tende ad unire due o più persone, possiamo dedurre, da un lato, che l’amore è ciò che fa legame con l’altro, nell’Altro, e, dall’altro, che senza l’amore, l’essere parlante non è naturalmente spinto ad esso. Perché ci sia legame, infatti, è necessario mettere in gioco, ed ammettere, la propria mancanza – l’amore, dice Lacan, in una formula ormai arcinota, è dare quello che non si ha[1], un segno cioè della propria mancanza. La mancanza iscrive il luogo in cui si colloca l’altro, e permette di unire, di legare, quello che, di fatto, potrebbe invece restare chiuso nel proprio godimento autoerotico. In questo senso possiamo intendere l’affermazione di Lacan secondo cui l’amore “permette al godimento di accondiscendere al desiderio”[2], vale a dire all’Altro del desiderio, al desiderio dell’Altro. Il problema però è il fatto che la mancanza dell’uno non coincide mai con la mancanza dell’altro: c’è sempre una beanza tra le due mancanze, che fa sì che l’amore, quando si produce, “supplisca al non rapporto sessuale”, venga cioè a porre un velo sulla sua inesistenza.
A partire dal suo statuto narcisistico (si ama il proprio ideale, colui a cui si suppone di avere quello che ci manca), l’amore permette di negare in un qualche modo la castrazione e per questo viene a velare, come dice Miller, “l’inadeguatezza della consistenza del corpo”. L’amore, però, deve fare i conti con il fatto che due non fanno mai uno. Come dice Lacan nel suo Seminario Les non-dupes errent, “l’amore sono due metà-dire che non si ricoprono. Ed è questo che ne fa il carattere fatale. É la divisione irrimediabile […]. É la connessione tra due saperi in quanto sono irrimediabilmente distinti. Quando si produce, fa qualcosa di […] assolutamente privilegiato”[3]. Questo significa che l’amore è dell’ordine della contingenza, è un legame estremamente fragile, che si mantiene sul bordo di un buco che, a un certo punto, può venire alla luce precisamente nelle situazioni di difficoltà o di rottura.
Ma cosa intendiamo con il termine rottura? Rottura – come possiamo leggere nella Treccani – deriva dal latino rŭmpĕre «rompere» – e sta ad indicare l’azione di rompere, il fatto di rompersi o di venire rotto; la cosa stessa e la parte rotta. Interessante, a questo proposito, notare che il verbo rompere si usa sia per il fatto di rompere qualcosa (un soggetto rompe qualcosa) sia quando qualcosa si rompe… in senso impersonale. Nelle espressioni volgari o eufemistiche la “rottura” indica anche “grave noia, fastidio, molestia o seccatura”. In effetti, è necessario un grande fastidio, un “disequilibrio” perché si decida di provare a capirne e a dirne qualcosa a qualcuno, in un’analisi.
Nel linguaggio comune, ad ogni modo, il termine rottura è connotato quasi sempre negativamente. Per la psicoanalisi, invece, la rottura ha tutt’altra connotazione: essa, infatti, sta al cuore stesso del soggetto, apre una discontinuità quando si manifesta l’esperienza dell’inconscio[4], quando la consistenza immaginaria del corpo viene meno lasciando emergere qualcosa del reale pulsionale… E anche la pratica analitica opera attraverso delle rotture: la rottura dell’omeostasi del sintomo, la rottura che l’interpretazione produce nella catena significante quando dissocia un significante dall’altro, ecc. Come segnala Jacques-Alain Miller nel suo Corso Ce qui fait insigne, l’interpretazione “sposta la rottura che è quella che esclude il soggetto dall’oggetto a, che rompe la formula del fantasma, che mette a distanza il fantasma, vale a dire il modo d’essere implicato dall’inconscio e dal discorso del padrone”[5]. La rottura, quindi, è necessaria… perché un cambiamento sia possibile. E, in effetti, anche la formazione dell’analista è il prodotto di una serie di rotture, di punti di discontinuità che iscrivono, per ognuno, il luogo del proprio non-sapere.
Cosa dire, quindi, della “clinica delle rotture amorose”, che sarà il tema di lavoro del prossimo Convegno Nazionale della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo freudiano?
Se per Freud, la famiglia si fonda sul “rifiuto di separazione”, che si declina, a seconda dei sessi, nel rifiuto, per l’uomo di separarsi da una donna, mentre per la donna, nel rifiuto di lasciare la parte di sé costituita dal figlio, è importante interrogarsi sulle coordinate in cui si producono oggi, caso per caso, le rotture amorose. La rottura è una conseguenza oppure è la causa del disagio del soggetto che viene a parlarcene? Che cosa ha prodotto la rottura, in che modo si è prodotta e, soprattutto, che cosa fa emergere? In effetti, se l’amore supplice all’inesistenza o all’assenza del rapporto sessuale, possiamo suppore che il momento di rottura faccia emergere, in modo più evidente, il tipo di vuoto che abita il soggetto. Si tratta di una perdita dialettizzabile, soggettivabile, oppure la perdita trascina con sé anche il soggetto, mostrando così la sua funzione di stampella? In altri termini, è possibile, per il soggetto, elaborare il lutto, fare cioè il lavoro di elaborazione simbolica necessario per restaurare il suo rapporto con il suo vero oggetto, l’oggetto a, di modo che il desiderio possa attivarsi di nuovo?
Nell’epoca in cui – anche grazie ai prodotti della scienza – il parlessere è sempre più solo con i propri oggetti, sempre più alle prese con il proprio godimento autistico, in cui l’alterità è negata o rifiutata, in che modo il soggetto vive ed inventa la propria relazione amorosa? In che modo, inoltre, i significanti-padroni contemporanei che, come ha indicato Jacques-Alain Miller durante l’ultimo Congresso dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, rinviano al binomio immaginario dominante-dominato, carnefice-vittima, e a quella che oggi assume la forma di una vera e propria guerra fra (tutti) i sessi, influenza le relazioni d’amore e le difficoltà che i soggetti hanno ad accettarne la fine e ad elaborarne quindi la rottura?
Rispetto alle “rotture amorose”, la pratica analitica offre il transfert come un’altra forma di amore, un amore che permette all’analizzante di elaborare la propria perdita, o la propria difficoltà a perdere, di estrarre i significanti che lo hanno segnato e che, in un qualche modo hanno iscritto qualcosa di reale nel suo corpo. Il transfert, però, introduce nella coppia analista-analizzante una sovversione in quanto, come scrive Lacan, “si dà un partner che ha probabilità di rispondere, cosa che non avviene nelle altre forme”[6]. Anche in questa circostanza, come nell’amore, molto dipende dal caso, dalla fortuna, ma non solo perché, dice ancora Lacan “l’occasione proviene da me e sta a me fornirla”. L’analista può fornire tale occasione occupando il posto dell’oggetto a, da cui opera, per rendere operative e feconde le rotture.
Nel prossimo Convegno della SLP avremo la possibilità di sentire in che modo oggi gli psicoanalisti forniscono a quanti si rivolgono loro l’occasione di una sovversione.
Adele Succetti
[1] J. Lacan, Il Seminario, Libro VIII, Il transfert, Einaudi, Torino, 2008, p. 39.
[2] J. Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, p. 209.
[3] J. Lacan, Le Séminaire, livre XXI, « Les non-dupes-errent », leçon du 15 janvier 1974, inédit.
[4] J. Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 27: “l’uno introdotto dall’esperienza dell’inconscio è l’uno della fessura, del tratto, della rottura”.
[5] J.-A. Miller, Ce qui fait insigne, Cours de l’Orientation lacanienne, cours du 21 janvier 1987, inédit.
[6] J. Lacan, “Introduzione all’edizione tedesca degli Scritti”, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 550.
Intervista a Jacques-Alain Miller
Psychologies Magazine, ottobre 2008, n. 278
Psychologies: La psicoanalisi insegna qualcosa sull’amore?
Jacques-Alain Miller: Molto, giacché è un’esperienza la cui molla è l’amore. Si tratta di quell’amore automatico, e molto spesso inconscio, che l’analizzante rivolge all’analista e che si chiama transfert. È un amore fittizio ma è della stessa stoffa dell’amore vero. Porta alla luce la sua meccanica: l’amore si rivolge a colui che pensate conosca la vostra verità vera. Ma l’amore permette d’immaginare che questa verità sarà amabile, piacevole, mentre, di fatto, è assai difficile da sopportare.
P: Allora, cosa significa amare veramente?
J.-A. Miller: Amare veramente qualcuno è credere che, amandolo, si possa accedere a una verità su di sé. Si ama colui o colei che custodisce la risposta, o una risposta, alla nostra domanda: «Chi sono?»
P: Perchè alcuni sanno amare e altri no?
J.-A. Miller: Alcuni sanno provocare l’amore nell’altro, i serial lovers, per così dire, uomini e donne. Sanno quali pulsanti premere per farsi amare. Ma essi non necessariamente amano, giocano piuttosto al gatto e al topo con le loro prede. Per amare, si deve ammettere la propria mancanza e riconoscere che si ha bisogno dell’altro, che vi manca. Quelli che credono di essere completi da soli, o che vogliono esserlo, non sanno amare. E talvolta, lo constatano con dolore. Manipolano, tirano le fila, ma dell’amore non conoscono né il rischio né le delizie.
P: “Essere completi da soli”: solo un uomo può credere questo…
J.-A. Miller: Esattamente! “Amare, diceva Lacan, è dare quello che non si ha”. Il che significa: amare è riconoscere la propria mancanza e offrirla all’altro, porla nell’altro. Non è dare quello che si possiede, dei beni, dei regali, è dare qualcosa che non si possiede, che va al di là di se stessi. Per questo, si deve assicurare la propria mancanza, la propria “castrazione”, come diceva Freud. E questo è essenzialmente femminile. Si ama veramente solo a partire da una posizione femminile. Amare femminilizza. Per questo motivo, nell’uomo, l’amore è sempre un po’ comico. Ma, se si lascia intimidire dal ridicolo, è perché, in realtà, non è sicuro della propria virilità.
P: Amare sarebbe più difficile per gli uomini?
J.-A. Miller: Eh sì! Anche un uomo innamorato ha scatti d’orgoglio, guizzi di aggressività contro l’oggetto del suo amore perché questo amore lo mette nella posizione d’incompletezza, di dipendenza. Per questo può desiderare donne che non ama, per ritrovare la posizione virile che, quando ama, tiene in sospeso. Questo principio Freud l’ha chiamato “degradazione della vita amorosa” nell’uomo: la scissione tra l’amore e il desiderio sessuale.
P: E nelle donne?
J.-A. Miller: È meno comune. Nel caso più frequente, c’è uno sdoppiamento del partner maschile. Da un lato, è l’amante che le fa godere e che desiderano, ma è anche l’uomo dell’amore, che è femminilizzato, necessariamente castrato. Non è, però, l’anatomia che comanda: ci sono donne che adottano una posizione maschile. Ce ne sono sempre di più. Un uomo per l’amore, a casa; e degli uomini per il godimento, incontrati su Internet, per strada, in treno…
P: Perché “sempre di più”?
J.-A. Miller: Gli stereotipi socioculturali della femminilità e della virilità sono in piena mutazione. Gli uomini sono invitati ad accogliere le proprie emozioni, ad amare, a rendersi femminili; le donne, invece, mostrano una certa “spinta-all’uomo”: in nome dell’uguaglianza giuridica, sono portate a ripetere “anch’io”. Al contempo, gli omosessuali rivendicano i diritti e i simboli degli eterosessuali, come il matrimonio e la filiazione. Da ciò deriva una grande instabilità dei ruoli, una fluidità generalizzata del teatro dell’amore, che contrasta con la fissità di un tempo. L’amore diventa “liquido”, constata il sociologo Zygmunt Bauman[1]. Ognuno è portato a inventare il proprio “stile di vita” personale e ad assumere il proprio modo di godere e di amare. Gli scenari tradizionali a poco a poco diventano desueti. La pressione sociale che spinge a conformarvisi non è scomparsa, ma sta diminuendo.
P: “L’amore è sempre reciproco” diceva Lacan. È ancora vero nel contesto attuale? Che cosa significa?
J.-A. Miller: Si ripete questa frase senza comprenderla o fraintendendola. Non significa che basta amare qualcuno perché egli vi ami. Sarebbe assurdo. Vuol dire: “Se ti amo è perché sei amabile. Sono io che amo ma anche tu sei implicato, perché in te c’è qualcosa che fa sì che ti ami. È reciproco perché c’è un andirivieni: l’amore che nutro per te è l’effetto che deriva dalla causa d’amore che tu sei per me. Quindi, c’entri per qualcosa. Il mio amore per te non è solo affar mio, ma anche affar tuo. Il mio amore dice qualcosa di te che forse tu stesso non conosci.” Questo non assicura affatto che all’amore dell’uno risponderà l’amore dell’altro: questa cosa, quando si produce, è sempre dell’ordine del miracolo, non è calcolabile in anticipo.
P: Non si trova il proprio, la propria per caso. Perché lui? Perché lei?
J.-A. Miller: C’è quella che Freud ha chiamato la Liebesbedingung, la condizione d’amore, la causa del desiderio. È un tratto particolare – o un insieme di tratti – che in qualcuno ha una funzione determinante nella scelta amorosa. Ciò sfugge completamente alle neuroscienze, perchè è proprio di ognuno, dipende dalla sua storia singolare e intima. Entrano in gioco tratti talvolta minimi. Freud, ad esempio, aveva individuato come causa del desiderio in uno dei suoi pazienti un certo brillio sul naso di una donna!
P: È difficile credere a un amore fondato su tali quisquiglie!
J.-A. Miller: La realtà dell’inconscio supera la finzione. Non avete idea di tutto quello che si fonda, nella via umana, e in particolare nell’amore, su simili bazzecole, su delle inezie, su dei “divini dettagli”. È anche vero che è soprattutto nell’uomo che troviamo queste cause del desiderio, che sono come dei feticci la cui presenza è indispensabile per scatenare il processo amoroso. Particolarità minime, che richiamano il padre, la madre, il fratello, la sorella, un certo personaggio dell’infanzia, hanno anch’esse il loro ruolo nella scelta amorosa delle donne. Ma la forma femminile dell’amore è più spesso erotomaniaca che feticista: le donne vogliono essere amate e l’interesse, l’amore che manifestiamo loro o che suppongono nell’altro, spesso è una condizione sine qua non che scatena il loro amore o perlomeno il loro consenso. Questo fenomeno sta alla base del corteggiamento maschile.
P: Non attribuisce nessun ruolo ai fantasmi?
J.-A. Miller: Nelle donne, che siano consci o inconsci, essi sono determinanti per la posizione di godimento, più che per la scelta d’amore. Per gli uomini vale l’inverso. Per esempio, capita che una donna possa ottenere il godimento – diciamo, l’orgasmo – solo se si immagina, durante l’atto stesso, di essere picchiata, violata o di essere un’altra donna, o anche di essere altrove, assente.
P: E il fantasma maschile?
J.-A. Miller: È molto evidente nel colpo di fulmine. L’esempio classico, commentato da Lacan, è, nel romanzo di Goethe[2], l’improvvisa passione del giovane Werther per Carlotta, quando la vede per la prima volta, mentre sta nutrendo la marmaglia che la circonda. In questo caso è l’atteggiamento materno della donna che scatena l’amore. Un altro esempio, tratto dalla mia pratica, è questo: un capo cinquantenne riceve le candidate per un posto di segretaria: una ragazza di 20 anni si presenta; lui le dichiara subito il proprio amore. Si chiede cosa gli sia preso, entra in analisi. Lì scopre quello che ha scatenato tutto ciò: aveva ritrovato in lei dei tratti che gli evocavano quello che era lui stesso a 20 anni, quando si era presentato al suo primo colloquio di lavoro. In un certo qual modo, si era innamorato di se stesso. In questi due esempi ritroviamo i due versanti distinti da Freud: si ama o la persona che protegge, in questo caso la madre, oppure un’immagine narcisistica di sé.
P: Si ha l’impressione di essere delle marionette!
J.-A. Miller: No, tra un uomo e una donna, nulla è scritto in anticipo, non vi è nessuna bussola, nessun rapporto prestabilito. Il loro incontro non è programmato come quello dello spermatozoo e dell’ovulo; nulla a che vedere neppure coi geni. Gli uomini e le donne parlano, vivono in un mondo di discorso, questo è determinante. Le modalità dell’amore sono ultrasensibili alla cultura circostante. Ogni civiltà si distingue per il modo in cui struttura il rapporto fra i sessi. Si dà il caso che, in Occidente, nelle nostre società al contempo liberali, commerciali e giuridiche, il “molteplice” stia detronizzando l’“uno”. Il modello ideale del “grande amore di tutta la vita” sta perdendo terreno di fronte allo speed dating, lo speed loving e tutta una fioritura di scenari amorosi alternativi, successivi, addirittura simultanei.
P: E l’amore nella durata? nell’eternità?
J.-A. Miller: Balzac diceva: “Ogni passione che non si creda eterna è orrenda”[3]. Ma il legame si può mantenere tutta la vita nel registro della passione? Più un uomo si consacra a una sola donna, più essa tende ad assumere per lui una significazione materna: tanto più sublime e intoccabile quanto più è amata. Sono gli omosessuali sposati che sviluppano meglio questo culto della donna: Aragon canta il suo amore per Elsa; non appena muore, tanti saluti! E quando una donna si aggrappa a un solo uomo, lo castra. Dunque, il cammino è angusto. Il miglior cammino dell’amore coniugale è l’amicizia, diceva in sostanza Aristotele.
P: Il problema è che gli uomini dicono di non comprendere cosa vogliono le donne; e le donne, quello che gli uomini si aspettano da loro …
J.-A. Miller: Sì. Quello che fa obiezione alla soluzione aristotelica è che il dialogo di un sesso con l’altro è impossibile, sospirava Lacan. Gli innamorati, di fatto, sono condannati ad apprendere indefinitamente la lingua dell’altro, annaspando, cercando chiavi di lettura, sempre revocabili. L’amore è un labirinto di malintesi da cui non esiste via d’uscita.
Affermazioni raccolte da Hanna Waar
Traduzione: Adele Succetti
[1] Z. Bauman, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari, 2006.
[2] J. W. Goethe, I dolori del giovane Werther, Feltrinelli, Milano, 2014.
[3] H. de Balzac, La Commedia umana, “Scene della vita parigina”, Mondadori, Milano, 2013.